Celebrazione Eucaristica in occasione della chiusura dell’Anno Accademico della Facoltà Teologica nel Seminario Regionale Sardo

8 Giugno 2024 | primo piano

Venerdì 7 giugno, a Cagliari, nella Cappella del Seminario Regionale Sardo, l’arcivescovo Gian Franco ha presieduto la Celebrazione Eucaristica in occasione della chiusura dell’Anno Accademico della Facoltà Teologica.

Di seguito riportiamo il testo dell’omelia pronunciata dall’Arcivescovo.

La liturgia del Sacro Cuore di Gesù ci invita a fissare lo sguardo su Dio e sull’umanità. La chiamata di Dio, come abbiamo potuto ascoltare nella Parola proclamata, si sviluppa in una dinamica di progressiva relazione. Egli assume la postura di colui che insegna a camminare, offrendo come sostegno la sua mano. Tuttavia, nonostante queste premure, Dio deve fare un’amara constatazione: «ma essi non compresero che avevo cura di loro» (Os 11,3). Nonostante l’amore riservato fosse segnato da gesti e azioni di profonda cura, la risposta a questo giovane ragazzo chiamato dall’Egitto è segnata dall’incomprensione.
Ciò che colpisce è lo stile dello sguardo di Dio. È uno sguardo non di tipo analitico; è uno sguardo tenero, paterno, materno, innamorato, compassionevole. Non si configura secondo lo stile di un sociologo o di un antropologo freddo e distaccato. È un cuore nel quale la dimensione della compagnia e della presenza manifestano la partecipazione di Dio al cammino della creatura umana. È il mistero della partecipazione che trova il suo pieno compimento nel mistero dell’incarnazione. Dio svolge le sue attività di cura verso un ragazzo, segnato dalla debolezza e dalla fragilità, come lo descrive Osea. È rilevante osservare come l’infanzia di Israele non venga descritta con il lessico della magnificenza, della perfezione; non emerge una personalità dotata di ogni forza ed energia.
Dio si pone accanto perché egli cresca e apprenda a camminare. Ciò che Dio desidera esprimere è che il suo cuore si commuove, il suo intimo freme di compassione: le viscere, i sentimenti di Dio si riscaldano davanti alla creatura umana.
Il dispiacere di Dio – che l’autore biblico esprime – viene sconvolto dall’amore che distoglie ogni sua decisione di rovina e di distruzione. Segue così una sorta di professione di fede sul mistero di Dio: l’ardore dell’ira non trova spazio perché è Dio e non uomo. La venuta di Dio sarà segnata non dall’ira.
In una società nella quale spesso si riflette sulla dimensione della guerra, della pace e del dialogo interreligioso, queste affermazioni hanno tanto da dire a ciascuno di noi.
Vi è poi un altro atteggiamento: «mi chinavo su di lui» (Os 11,7), così caro alla tradizione ermeneutica dei Santi Padri. È la synkatabasis di Dio. Gli autori cristiani desiderano spiegare ai propri interlocutori che il Figlio di Dio ha realmente assunto la natura umana con la sua debolezza, ha rivestito una vera carne e non è solo figura di realtà future. È la comunicazione dello stesso mistero di amore che Dio progressivamente conduce al punto più elevato: «comprendere con tutti i santi quale sia l’ampiezza, la lunghezza, l’altezza e la profondità, e conoscere l’amore di Cristo che sorpassa ogni conoscenza» (Ef 3,18-19).
«Questo – ci ricorda San Giovanni Crisostomo – è il fatto più considerevole e carico di sorpresa, che il Figlio di Dio pur essendo Dio, abbia voluto diventare uomo e degnarsi di scendere tanto quanto neppure la mente riesce a comprendere».
Davanti a un così grande mistero vi è però anche il mistero delle umane debolezze. Quali debolezze? La fame, la sete, la stanchezza, la tristezza, il turbamento, gli spasimi dell’agonia e della morte.
Mentre Dio si curva sull’umanità, suscita però anche un altro movimento di elevazione: «Volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto» (Gv 19,37). E così, come per Israele, tratto dall’Egitto, anche la vicenda terrena di Gesù appare segnata dall’incomprensione umana.
Dalla fatica di un cammino, da un esodo che comporta un prezzo da pagare. L’evangelista Giovanni presenta i discepoli che seguirono il Maestro desiderosi di conoscere il volto di Dio. Più volte lo interrogarono. È l’inquietudine di Filippo: «Signore, mostraci il Padre e ci basta» (Gv 14,8); Gesù gli risponde: «Chi ha visto me ha visto il Padre» (Gv 14,9). La domanda e la risposta esprimono il desiderio e l’anelito di tradizioni religiose e culturali che vanno ben oltre il momento storico.
La solennità del Santissimo Cuore di Gesù esprime tramite un’icona particolare la sintesi del mistero che la storia della salvezza trasmette con il linguaggio dell’amore e della misericordia.
Di questo linguaggio sottolineo due aspetti: la Passione e la Croce, come luogo della rivelazione. La creatura umana può così toccare e vedere l’amore invisibile. Il Crocifisso resta il segno-mistero dal quale sgorga la vita e la salvezza nei segni dell’acqua e del sangue. Acqua e sangue sono segni di vita, così come Cristo continua ad agire come Signore del tempo e della storia, il Risorto, il Vivente. Egli è Dio della vita, e desidera accompagnare perciò la creatura umana perché abbia vita e l’abbia in abbondanza.
L’esperienza del discepolo alla sequela di Gesù, nel tempo vede sperimentato il mistero di Dio. È una conoscenza che coinvolge tutti i sensi cercando di tenere in equilibrio la razionalità, l’affettività, l’operatività.
In questa manifestazione di Dio è importante la dimensione della relazione del lessico riconducibile ad alcuni termini che abbiamo ascoltato: chiamare, camminare, nutrire, vedere. Sono proprietà che conducono oltre una semplice raffigurazione che oggettivizza in una immagine materiale. Trascende la sola sfera puramente materiale per condurre ad una dimensione che implica l’idea di persona in relazione.
Nella solennità odierna vediamo proprio il mistero di Dio, che si intrattiene con la caratura urbana.
Nella seconda lettura abbiamo ascoltato l’Apostolo dire che il mistero della Chiesa, radunata nel segno della Santissima Trinità.
In un tempo di conversione pastorale, di ripensamento delle strutture e di istituzioni educative siamo chiamati a riscoprire questo Mistero della Chiesa e la sua missione. Il Signore ci ha lasciato il grande dono dell’unione epicletica tra Chiesa e Spirito, a fronte della tentazione, sempre alle porte, di generare una sorta di relazione ipostatica tra Chiesa, Cristo e Spirito. Questo rende difficoltoso il cammino perché restringe gli orizzonti di Dio che sono aperti verso tutti.
Il Signore ci invita, sostenuti dalla sua luce e dalla pienezza della ricchezza di Cristo, verso una nuova coscienza che Osea e Paolo suggeriscono di chiamare coscienza della chiamata, della vocazione ad annunciare il mistero. È la consapevolezza di essere stati amati e chiamati dal Signore: «Quando Israele era giovinetto, io l’ho amato e dall’Egitto ho chiamato mio figlio» (Os 11,1). E come dice l’Apostolo: «a me, che sono l’ultimo fra tutti i santi, è stata concessa questa grazia: annunciare alle genti le impenetrabili ricchezze di Cristo e illuminare tutti sulla attuazione del mistero nascosto da secoli» (Ef 3,8-9).
In entrambe le situazioni l’iniziativa di Dio sviluppa un processo di vita che va oltre i calcoli e le premesse umane. Noi talvolta siamo tentati di fermarci sulle premesse oppure sull’agire passato. Dio invece proietta oltre, apre orizzonti più ampi. È la riscoperta del primato della Grazia di Dio: «per la grazia di Dio io sono quello che sono; e la grazia sua verso di me non è stata vana» (1Cor 15,10).
Il Risorto ha trasfigurato in Paolo l’intelligenza religiosa, il suo modo di considerare la storia, di leggere la Torah e i Profeti. Ha trasformato e rinnovato la sua esistenza.
La metafora di Paolo, di essere l’infimo, la riprende Sant’Ignazio di Antiochia scrivendo ai Romani: «Sono l’ultimo di tutti, sono un aborto; ma mi sarà concesso di essere qualcosa, se raggiungerò Dio» (9,2).
Questo primato della grazia ci apre alla vigilanza sia spirituale che intellettuale. La tentazione di non entrare nel vortice dell’iper-responsabilità antropocentrica non tiene conto né della grazia di Cristo né dei limiti. Più volte papa Francesco ha ricordato che da Cristo «dobbiamo imparare che annunciare una grande gioia a coloro che sono molto poveri non si può fare se non in modo rispettoso e umile fino all’umiliazione» (Santa Messa del Crisma, 13 aprile 2017). È questo un atteggiamento apostolico ma anche un atteggiamento culturale.
Scopriamo così di aver aderito alla chiamata ma non l’abbiamo fabbricata noi. Essa è dono di Dio e perciò nella situazione umana è anche sorgente di pace interiore. Henri de Lubac ricorda che proprio «l’amore di Cristo supera ogni conoscenza» e «se Gesù Cristo non è la ricchezza della Chiesa, la Chiesa è miserabile. La Chiesa è sterile se lo Spirito di Gesù Cristo non la feconda. Il suo edificio crolla, se Gesù Cristo non ne è l’architetto e se il suo Spirito non è il cemento che tiene insieme le pietre vive con cui è costruita. […] La scienza di cui si vanta è falsa; è falsa la sapienza che l’adorna, se non convergono l’una all’altra in Gesù Cristo, e se la sua luce non è una “luce illuminata” che tutta viene da Gesù Cristo, essa tiene immersi nelle tenebre di morte».
La parole di de Lubac appaiono di particolare rilevanza: sono una sollecitazione, uno stimolo per lo studi, per la riflessione e per l’educazione. Siamo chiamati così ad affermare «un’etica della grazia contro un’etica della prestazione»

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