ANNO A – IV DOMENICA DI PASQUA

At 2,14a.36-41 | Sal 22 | 1Pt 2, 20b-25 | Gv 10,1-10

Ufficio Comunicazioni Sociali – don Michele MURGIA

Nell’Antico Testamento Israele attribuisce di frequente a Dio il titolo di «pastore», un termine capace di fondere tra loro molti altri simboli: complessità della terra, condizioni necessarie alla vita, pericoli e risorse dell’esistere, legami che fondano la comunità, regole del movimento, ambiguità delle leadership e soprattutto fiducia incondizionata nell’unico Signore-guida. Questo insieme è talmente significativo che la Chiesa usa spesso la parola «pastorale». Il «pastore bello» e buono non è un’icona da contemplare una volta all’anno: «le pecore ascoltano… conoscono la sua voce» e Lui le conosce a sua volta per nome in un rapporto reciproco che sigilla un avvenimento non improvvisato, non disordinato, non casuale, ma nato da un patto che lega la vita del gregge e quella del Pastore, sino a «dare la vita». Nessuno è isolato, né vaga per conto proprio, ed il Pastore non sacrifica nessuno alla causa dei molti: non lascia indietro, non si dimentica, non abbandona. Ancora oggi troppi cristiani faticano a riconoscersi come «popolo-gregge» e ricercano pascoli estinti nell’orientamento di timoni e bussole autogestiti: corrono il rischio di andare appresso a mercenari, a chi invoca fedeltà ma non si espone, preferendo millantare autorevolezza e sicurezza di sé piuttosto che mostrare bontà e bellezza.

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