Nel pomeriggio di sabato 2 novembre, Commemorazione di tutti i fedeli defunti, l’arcivescovo Gian Franco ha presieduto la Celebrazione eucaristica nel cimitero di Sassari.
Di seguito si riporta l’omelia pronunciata dall’Arcivescovo:
«Ogni domenica, quando partecipiamo all’Eucaristia, nella professione di fede diciamo ciò che continuamente nella nostra vita speriamo: “Credo nella risurrezione della carne”. Desidero sottolineare proprio questa dimensione – la risurrezione della carne – perché possiamo coglierne la valenza, l’importanza di tutta la nostra dimensione corporea e corporale davanti al mistero della creazione.
Vi è un’immagine che San Paolo ci propone per comprendere quanto questa affermazione, sia compatibile con la ragione e con la razionalità: è l’immagine del seme. L’Apostolo dice: “Si semina un corpo corruttibile e risorge incorruttibile, si semina debole e risorge pieno di forza. Si semina un corpo animale, risorge un corpo spirituale” (1Cor 15,42-44). È l’immagine del seme: il seme gettato in terra contiene in sé il germe di vita e nel contesto della terra rinasce vigoroso, nasce una nuova vita. Noi veniamo seminati nella terra di Dio: ecco perché questa immagine può aiutarci a comprendere un mistero che certamente la razionalità umana non può esaurire, che le nostre indagini faticano a comprendere. Ciascuno di noi è però in grado di capire che, quando getta un seme, quel seme produce qualcosa, genera qualcosa. Questo è il mistero della risurrezione della carne. Infatti, questo seme, che è il corpo, se così vogliamo dire, attraverso il battesimo è divenuto Tempio dello Spirito Santo. Il nostro corpo è stato toccato da Cristo mediante i segni delle unzioni battesimali, nella confermazione, per molti con l’ordine sacro, con l’unzione degli infermi, che non è il sacramento dell’ultima ora ma il sacramento proprio dell’infermità, della debolezza, della fragilità. È proprio attraverso i nostri sensi fisici che il Signore comunica con noi la grazia dello Spirito. Chi ha scelto lo stato di vita matrimoniale è stato santificato nel sacramento del matrimonio attraverso il mistero dell’unione nuziale.
Il corpo manifesta la bellezza del Creatore, è il segno di un mistero di amore. Oggi noi siamo chiamati ad interrogarci sulla risurrezione della carne in un luogo dove il corpo apparentemente sarebbe destinato al disfacimento, ad una memoria esteriore, alla memoria e alla gloria dei sepolcri. Invece, in questa terra, in questo luogo, ciò che viene seminato mortale risorge immortale. Nel Vangelo che è stato proclamato, abbiamo ascoltato qual è la via indicata da Gesù per il pellegrinaggio terreno, verso il nostro compimento. Questa via non spiritualizza la dimensione corporale della persona umana ma, anzi, ne mostra la sua piena partecipazione al progetto di Dio. Nella persona umana non c’è da una parte il corpo e dall’altra lo spirito. Nel nostro essere corporale si esprime la persona concreta ed è quella persona concreta con quella singolarità che cresce, che cammina verso un progetto, sia interpersonale sia della nuova creazione.
Infatti, le beatitudini che Gesù ha descritto, non sono beatitudini da vivere solo in modo intimistico, spiritualistico: esse richiamano una concretezza e una manifestazione il cui veicolo, il cui specchio è la dimensione corporale. Vi sono i poveri in spirito, chi sperimenta il pianto, chi sperimenta la fame e la sete della giustizia, la misericordia, vi è chi ha il cuore limpido, trasparente, chi si adopera per la pace, chi si adopera per la giustizia. Non sono azioni astratte, ma azioni che passano attraverso un contatto, attraverso una relazione. E questa è la dimensione relazionale della fede cristiana che ci porta a comprendere come la Vita eterna è stata pensata da Dio in una relazione. Tant’è vero che il nostro pellegrinaggio terreno tende all’incontro con la Trinità, all’abbraccio con la Trinità. I cieli nuovi e la terra nuova non sono dei cieli e delle terre dove tutto ciò che noi oggi abbiamo vissuto non ha alcun senso, alcun significato, ma sono nuovi nella novità che porta a compimento il cammino che viviamo. Questo significa che anche oggi non possiamo lasciarci annebbiare la mente dalla tentazione di isolarci in una fede astratta, in una fede del disimpegno, oppure in una fede totalmente secolare, cioè senza Dio, senza una prospettiva spirituale.
Vi è un grande rischio che arriva dai grandi e importanti risultati della biomedica, che sono molto progrediti, e così dall’intelligenza artificiale, tutte conquiste dell’umanità importanti, che vanno comprese, accolte in un approccio integrale perché vi sia un approccio concreto alla persona umana e alla sua dignità.
Noi oggi certamente siamo venuti qui in cimitero spinti da ragioni di affetto per i nostri cari, ma se ritorniamo indietro e pensiamo agli ultimi passi, agli ultimi momenti più o meno lunghi del fine vita, del termine di un’esistenza, ci rendiamo conto quanto la spiritualità e la visione della persona umana sia determinante nell’affrontare il morire e la morte. Ma soprattutto anche nel promuovere la vita, che sia segno della civiltà della vita e non della civiltà della morte. Perciò anche tutte le discussioni che oggi sono in atto circa gli anziani, le persone deboli, i fragili, la presenza o assenza di medici sufficienti o insufficienti, tutto questo ha a che fare con la spiritualità, tutto questo ha a che fare con la visione della vita, con la nostra visione della fede, con una fede che deve essere operativa, trasformativa e rigenerativa.
Desidero perciò richiamare l’ultimo messaggio rivolto alla Città e al territorio, invitando a maturare nelle nostre comunità un pensiero ospitale verso le novità che arrivano, le novità di pensiero, di stili di vita, di comportamenti, per saperle leggere alla luce del Vangelo. Questo ci aiuterà a non considerare il corpo semplicemente come un organismo, disgiungendolo così dell’altra dimensione corporea, ma vedendolo in una sua dimensione più integrale.
Come dicevo prima, il nostro pensiero e la nostra preghiera vanno verso i nostri cari defunti e il tempo trascorso con loro nei passaggi da questa vita alla vita eterna sicuramente è stato anche esso educativo per farci guardare verso un oltre, verso un orizzonte. Per questo, tra le opere di misericordia, la Chiesa ha sempre coltivato due binari non disgiunti ma congiunti: le opere di misericordia corporali e spirituali. Tra quelle corporali, c’èseppellire i defunti, tra quelle spirituali, consolare gli afflitti e visitare i moribondi. Queste due dimensioni la Chiesa le ha sempre messe insieme. La Chiesa non è una sorta di carro funebre dove si mettono corpi inanimati; la Chiesa è un mistero di vita, è vivente. La Chiesa è viva perché essa è la comunità dei chiamati, dei viventi.
E allora il processo di cambiamento oggi interpella la nostra pastorale, il nostro modo di affrontare queste dimensioni. Mentre sta per iniziare la Visita pastorale in città, desidero sottolineare questi aspetti in una celebrazione cittadina affinché anche noi,nella città di Sassari, riflettiamo su quale pastorale urbana per il terzo millennio siamo chiamati a metterci in gioco. La nostra città ha vissuto delle stagioni importanti nel recepire la modernità nel Novecento e in altre epoche. Oggi siamo chiamati nuovamente a rimetterci in gioco con sapienza, con generosità, non da spettatori ma come artigiani di un futuro. Il contributo che il cristianesimo può offrire è quello di favorire lo sviluppo di una rinnovata cultura nell’approccio alla morte, al dolore, alla sofferenza, al lutto, nel mantenere viva la domanda sul mistero della morte, sui nostri cari defunti e sulla loro sorte finale. I cristiani ricordano i defunti perché vivono, non perché vivano. Perché vivono: essi sono viventi.
La concezione cristiana della persona quindi, come dicevo, è illuminata dal mistero della Pasqua e in modo particolare da quell’espressione che nella Veglia pasquale ci ricorda che Dio, in modo mirabile ci ha creati e in modo più mirabile ci ha redenti,richiamandoci a vita. E perciò noi siamo nelle mani di Dio. Proprio per questo, perché creatura di Dio, ogni uomo è anche immagine di Dio.
Il Concilio Vaticano II, nella Gaudium et Spes, ci ha ricordato che fa parte della natura dell’uomo sperare in un’esistenza eterna oltre la morte. E perciò, rispettare la dignità dell’uomo significa riconoscere e accettare anche i desideri e le speranze di ogni uomo, di ogni persona umana, quella reale, quella vera, quella concreta – ci ricorda il Concilio – non di una persona che sta dentro un’enciclopedia, e neanche di una persona che sta dentro un libro di dogmatica, ma della persona storica, la persona reale, quella vera. Quella persona concreta deve essere oggetto dell’annuncio del mistero pasquale, della speranza che il Cristo risorto ha annunciato per tutti e ha preparato per tutti.
Preghiamo per tutti e troviamo nella preghiera lo spazio sublime di comunione con coloro che vivono. È degna di considerazione la parola di Santa Monica proprio prima della sua morte, riportata nel libro delle Confessioni, quando il figlio Navigio, fratello di Agostino, si preoccupava della sua possibile morte lontana da casa, nei pressi di Roma, a Ostia probabilmente. E così Monicadice: “Seppellite questo corpo in qualsiasi luogo, non preoccupatevi per esso, vi chiedo soltanto che ovunque siate vi ricordiate di me all’altare di Dio”. La fede apre orizzonti che vanno oltre confini nazionali, oltre logiche, oltre barriere che potrebbero rinchiudere in anguste visioni il mistero della morte, del morire e della sepoltura. E perciò nella preghiera di ringraziamento, nell’Eucaristia, noi ricordiamo sempre i nostri fratelli defunti e preghiamo per tutti i fratelli defunti. E come accennavo prima, è importante che nella nostra città venga ripensata profondamente tutta la pastorale relativa al fine vita, al morire e alle liturgie per i fedeli defunti.
Vi sono dei cambiamenti che riguardano proprio fattori culturali e che si innestano anche con altri fenomeni sociali, per cui occorre che la dimensione ecclesiale di questi aspetti venga ben demarcata da altre dimensioni. I rituali del lutto, della sepoltura, i riti di passaggio cambiano. Perciò la Chiesa è chiamata a tradurre, a seconda delle domande del momento contemporaneo, queste esigenze e queste domande. Talvolta si ha l’impressione che sia innato ormai, in certi paesi da molti decenni, e anche nei nostri contesti una sorta di sviluppo dei professionisti dell’orazione funebre e delle imprese del funebre. Questo interpella la pastorale. Così come interpella la pastorale il modo di celebrare la liturgia dei defunti, evitando quanto più possibile sovrapposizioni e garantendo quella connessione con la comunità credente. In una società dove vi è una forte crisi di appartenenza, lo spaesamento che si vive in quei momenti sicuramente è oggetto di una tensione, di una diaconia, di un servizio. Questo lo compresero subito i primi cristiani: tra le varie ministerialità vi erano coloro che si occupavano dei luoghi funerari. Nei primi secoli, quando poi si è invertita la situazione, sono avvenuti fenomeni contrari: oggi si ripropone ancora un’altra situazione. Allora dobbiamo ripensarla, dobbiamo riaccoglierla e reinterpretarla. Preghiamo perché la liturgia, che è il culmine verso cui tende l’azione della Chiesa, la fonte da cui promana tutta la sua virtù, possa essere luogo di annuncio della speranza nella Vita eterna».