Martedì 10 settembre, nella Cattedrale di San Nicola a Sassari,l’arcivescovo Gian Franco ha presieduto la Santa Messa per le esequie di Monsignor Pietro Desole.
Di seguito riportiamo l’omelia dell’Arcivescovo Gian Franco Saba.
«Mentre accompagniamo il nostro fratello Pietro in quest’ultimo tratto della realtà terrena, il Signore attraverso la sua Parola ci aiuta a leggere il mistero della vocazione, alla luce di una prospettiva che sfugge ai nostri sensi e alle nostre valutazioni terrene. Riflettendo sulla vocazione degli apostoli di Gesù, pensiamo alla vocazione Don Pietro. L’Evangelista Luca ci ricorda che Gesù, dopo aver trascorso una notte in preghiera sul monte, in pieno giorno chiama a sé i discepoli e ne scelse dodici. Il mistero della chiamata sgorga dal cuore di Dio, da un progetto di amore che Dio per l’umanità alla quale Gesù invio i suoi apostoli.
Don Pietro ha fatto della sua vita un costante esercizio di discepolato e di apostolato. Anche noi siamo chiamati a vivere la nostra fede cristiana nella dinamica dei discepoli e degli apostoli.
Dio ha dato a Don Pietro, qui nella città di Sassari, il dono della vita l’11 novembre del 1938, dai genitori Efisio e Assunta Ruiu, che vivevano nella parrocchia storica di Sant’Apollinare. Don Pietro ha ricevuto l’Ordinazione sacerdotale il 28 di giugno del 1964. Dopo la formazione iniziale nella filosofia e nell’ambito teologico, conseguì la laurea in teologia e fece gli studi in lettere a Genova. Ha esercitato il ministero pastorale come viceparroco nella Basilica cittadina del Sacro Cuore nel 1964, e poi, nel 1968,come vice parroco beneficiato nella Cattedrale di San Nicola. Successivamente iniziò un ministero peculiare che ha segnato la sua vita – quello di segretario arcivescovile – prima con Monsignor Paolo Carta, dal primo di luglio del 1979 al 1982 e poi con Monsignor Salvatore Isgrò dal 1982 al 2004. Poi ancora con Monsignor Paolo Atzei, dal 2004 al primo settembre del 2012. Nel contempo Don Pietro ha sempre svolto servizi a beneficio della Chiesa turritana: è stato direttore del Centro missionario diocesano, Direttore spirituale del Seminario minore, Canonico penitenziere del capitolo turritano e infine, dal 2007, Rettore della chiesa del Rosario fino al 2019, quando mi chiese per mancanza di forze e di energie di essere sollevato da questo incarico.
Come si può evincere dai tratti biografici indicati, quella di Don Pietro è stata una vita intensa, spesa interamente nella sequela del Signore e a servizio della Chiesa. La sua umanità, per quanto ho potuto constatare negli incontri intercorsi, credo che fosse segnata profondamente dal grande mistero della chiamata che vedeva alla luce della fede. Don Pietro era consapevole di essere stato chiamato a partecipare alla missione di pascere il gregge del Signore. Proprio come Gesù ci insegna nel Vangelo di Luca: il Signore, il Verbo di Dio, non si ferma nelle vette dell’alto monte con un piccolo gruppo, ma scende a valle, in un luogo pianeggiante, per accompagnare una grande folla, una grande moltitudine bisognosa di un pastore che l’accompagni, che la conduca al pascolo per nutrirsi della sua Parola.
L’evangelista Luca ci dice che quelle tante persone erano giunteper ascoltare Gesù e per essere guarite dalle malattie.
Il ministero della Parola caratterizza profondamente la vita del presbitero, sia nella celebrazione dell’Eucaristia che nell’amministrazione dei sacramenti, nella catechesi, nell’accompagnare il popolo di Dio, non secondo logiche terrene ma con la Parola che Cristo stesso ci ha lasciato. Questa parola che ha nutrito Don Pietro, egli stesso l’ha dispensata. Il ministero sacerdotale è poi anche ministero di guarigione. Gesù ha donato la sua vita per risanarci dal male del serpente antico, per liberare il cuore dell’uomo dal peccato. E così il presbitero, il pastore, nel celebrare i sacramenti, nel celebrare in particolare l’Eucaristia, diviene dispensatore di questo farmaco di immortalità, di questa medicina di grazia.
Con spirito di gratitudine oggi desidero celebrare l’Eucaristia utilizzando il calice che Don Pietro tempo fa mi volle lasciare in sua memoria. È un dono prezioso che custodisco, frutto del rapporto spirituale che, nel tempo in cui ancora aveva una buona lucidità, volle intrattenere con un giovanissimo vescovo.
Un ecclesiastico anziano, non della nostra diocesi, che mi ha chiamato per rappresentare le condoglianze, ha definito Don Pietro un presbitero umile, acuto e riservato. Umile perché nonostante la sua formazione e la sua cultura non ha mai fatto sfoggio vanaglorioso della sua formazione; acuto perché capace di comprendere e leggere le situazioni; riservato e segreto perché è stato accanto ai Vescovi senza mai far trapelare alcun segreto. La disciplina della Chiesa ci ricorda che chi assolve a un particolare ministero che vincola a particolari segreti, ove venisse meno il rispetto del segreto, lede profondamente la carità. Credo che Don Pietro osservasse il segreto non per un dovere formale, ma veramente per un dovere di carità.
Monsignor Pietro Meloni, che porge le sue condoglianze e si rende vicino, non potendo essere presente a motivo della sua salute, ricorda Don Pietro come un prete, un poeta e un appassionato studioso di storia della nostra Chiesa particolare. E così Monsignor Francesco Soddu porta il suo saluto e la sua vicinanza, grato per la collaborazione condivisa con Don Pietro prima nel Seminario diocesano e poi qui, nella chiesa Cattedrale.
Mi pare di poter dire che Don Pietro, per il largo ministero che ha esercitato e per le delicate questioni che è venuto a trattare, sia stato un esperto non solo dell’interiorità del popolo di Dio, ma della vocazione presbiterale. Vi sono sacerdoti che esercitano il loro ministero in cura d’anime, ci ricordava San Paolo VI, in quartieri vasti e popolosi, e vi sono altri sacerdoti i quali esercitano il loro ministero nel nascondimento, nella mancanza di conversazioni, ma nella diretta collaborazione con il Vescovo, divenendo uno strumento facilitatore di servizio di colui che è chiamato nella Chiesa ad essere, secondo l’affermazione di Sant’Ambrogio, “Vicarius amoris Christi”. Credo che Don Pietro appartenga a questa seconda categoria, alla categoria dei presbiteri del nascondimento. È stato vicino ai Vescovi in un’epoca in cuiebbe inizio anche un travaglio culturale che interessò la Chiesa in generale e la stessa vita del clero. Sempre San Paolo VI, in quegli anni, affermava che un’onda tempestosa di questioni, di dubbi, di negazioni e di riflessioni non affini alla vocazione secondo come rivelata nel Vangelo attraversava la vita della Chiesa. E San Paolo VI indicava ancora due onde tempestose. La prima è quella del presbitero che interroga sé stesso, il suo essere interiore. La seconda è sulla sua missione. Essendo un uomo di speranza, di fiducia, riflettendo su queste onde, San Paolo VI diceva: “da tutto questo, noi guidati dallo Spirito Santo, intendiamo porre in evidenza che vi è un’idea nuova e dinamica, che bisogna saper leggere e scrutare”. Quest’idea nuova e dinamica è quella di far sì che la carità del cuore del prete raggiunga il cammino storico del popolo di Dio, talvolta forestiero, solitario e isolato. Essere segno di Cristo che accompagna e pasce il suo gregge.
Grazie Don Pietro, perché non sei rimasto soltanto nelle vette del monte a contemplare una dottrina astratta, ma hai saputo accogliere e ascoltare ogni persona in situazione».