Nella mattina di lunedì 20 maggio l’arcivescovo Gian Franco Saba ha presieduto il Solenne Pontificale in occasione della festa dei Santi Martiri Turritani nella Basilica a loro dedicata a Porto Torres.

Nell’omelia l’arcivescovo ha detto:

«L’Apostolo Paolo, rivolgendosi alla comunità di Tessalonica, descrive il ministero dell’annuncio del Vangelo e della presidenza della comunità come un ministero di cura, come un ministero di donazione: “Così affezionati a voi, avremmo desiderato darvi non solo il vangelo di Dio, ma la nostra stessa vita” (1Ts 2,8).
Queste parole dell’Apostolo ben sintetizzano, non tanto la biografia storica dei Protomartiri, quanto la loro biografia spirituale. Se di essi conosciamo ben poco, fatta eccezione del dato del martirio, tuttavia conosciamo quella che fu la manifestazione della vocazione cui essi risposero. Trasmettere il Vangelo di Dio alla comunità e donare la vita, due dimensioni tra loro profondamente connesse. L’annuncio del Vangelo, infatti, come ci ricorda la Parola che abbiamo ascoltato, non è opera di inganno, non è opera di persuasione, non è una sorta di operazione retorica volta a confondere, ad orientare le masse, quanto piuttosto ad annunciare la luce della Parola, perché orienti il cammino, il timbro di credibilità dell’annuncio e la donazione della vita. Come Cristo è la Parola vivente, il Vangelo vivente, che ha donato la propria vita per l’umanità, così l’apostolo, il testimone, il cristiano, è colui che annuncia il Vangelo con le parole e con la vita.

L’evangelista Giovanni esprime questo mistero attraverso un’immagine, quella del chicco di grano caduto in terra: perché esso porti frutto deve morire, deve andare sottoterra e così porterà non solo frutto ma molto frutto, sottolinea l’evangelista. La Parola di Dio, infatti, annunciata nelle nostre vite e nelle nostre esistenze, è destinata a portare frutto, ad essere una parola generativa.
Così i nostri Protomartiri sono stati generativi e continuano ad esserlo con la loro testimonianza, con la loro fraterna intercessione. La credibilità dei nostri Protomartiri deriva dalla loro donazione piena e totale. La dimensione della fede, tuttavia, non è una dimensione privata, soggettivistica, ma è comunitaria: è per portare molto frutto. È il seme chiamato a non rimanere da solo; è l’immagine della spiga che richiama il mistero del grano dai tanti semi che poi diventano un unico pane che viene a noi donato nell’Eucaristia, nel mistero di Cristo che ancora diventa per noi cibo e nutrimento. I molti chicchi di grano diventano un unico pane, i molti chicchi di grano sono l’espressione di un frutto, del frutto di chi non rimane solo.


E così la fede ci invita nella dimensione personale a passare dall’essere figure chiuse in un io isolato all’apertura verso gli altri, a portare frutto. La fede conduce dall’essere figure isolate e sterili a divenire figure generative. Qual è il grande frutto che lo Spirito Santo nel corso dei tempi ha donato alle nostre comunità e alla Chiesa attraverso l’opera di Gavino, Proto e Genuario? Il frutto dei molti, di una Chiesa, di una comunità. La fede non è un fatto privato; è un dono personale perché divenga a beneficio di tutti, perché sia incisiva nella vita comune.
Siamo impegnati nel cammino sinodale, in quel processo di conversione pastorale al quale papa Francesco con tanta determinazione in questi anni ci ha sollecitati. E la comunità cristiana di Porto Torres ne ha avuto una particolare sollecitazione in occasione della visita pastorale e della successiva nota pastorale, “Die ac nocte”. I nostri Protomartiri non cessavano di annunciare il Vangelo affinché questo Die ac nocte diventi il pieno impegno e la totale dedizione della nostra comunità cristiana.


In occasione di questa solennità riconsegno alla nostra comunità la visione e la missione della nota pastorale affinché si esca dalla solitudine per cadere in profondità, per gettare semi in profondità che portino frutto. Questo passare dall’essere solo al portare frutto, come la liturgia oggi ci ricorda, ben ci aiuta a comprendere il processo sinodale. Esso, infatti, non è un atto di mera organizzazione sociale delle nostre comunità, quanto piuttosto la riscoperta della consapevolezza di essere “ecclesia”, cioè Chiesa, comunità convocata, comunità radunata.
Da questa testimonianza cristiana la comunità umana nelle sue diverse manifestazioni ne avrà grande vantaggio, poiché il bene interpella e rigenera e il valore del dono della vita sollecita la coscienza personale attraverso l’esempio. Di fronte al dono la persona umana è provocata, cioè, viene in qualche modo sconvolta, viene proiettata in un esodo per uscire da sé e per accogliere l’altro. I martiri infatti ci provocano, cioè ci interpellano. Questo processo dinamico di fuoriuscita, di esodo dalla chiusura e dall’isolamento, è tanto importante in un contesto storico di profondi cambiamenti sociali, in cui la geografia antropologica dei nostri territori si va riconfigurando.


Il Vangelo e l’annuncio del Vangelo mostra in questo contesto la sua universalità, ossia la sua capacità di parlare a uomini e donne di ogni lingua, popolo, cultura e nazione. È un uscire dall’isolamento e cadere sotto terra; andare sotto terra per portare frutto come il seme significa attivare un dinamismo che tocca le coscienze. Più l’io si chiude in sé stesso, più un gruppo sceglie di vivere a porte chiuse. E questa non è la Chiesa, perché lo Spirito Santo apre le porte della Chiesa. L’orizzonte si fa velato, scuro, tetro, stagnante, quanto più si rimane chiusi in nostalgie di un passato, che forse oggi interpella la nostra capacità di rigenerare, proprio sollecitati dal passato. I nostri martiri appartengono al passato, ma sono vivi, sono presenti, sono accanto a noi; con la loro fraterna intercessione ci indicano la strada. Sono per noi maestri, sono una scuola alla quale siamo chiamati a metterci e la loro vita donata genera. E il dono che cosa genera? Genera dono e il bene genera bene.


Talvolta assistiamo a situazioni di male che toccano la vita sociale e anche la vita ecclesiale. Di fronte a queste situazioni siamo chiamati evangelicamente a rispondere lasciandoci provocare interiormente per intraprendere la strada rigenerativa che la parola del Vangelo ci indica.


La presenza della Chiesa non può ridursi ad un presenzialismo, alla ripetizione meccanica di un calendario di tappe che forse talvolta possono aver smarrito la consapevolezza e la forza trasformativa. Esse ci sollecitano invece ad un’azione perché, accompagnata dalla riflessione, ciascuno di noi si impegni, come sottolinea il Santo Padre, a non lasciare le cose così come stanno.


I Santi martiri, con la loro capacità di scelta, il loro coraggio, la loro larghezza d’animo, ci invitano a partecipare attivamente riconducendo ad una convergenza la ricchezza delle diverse espressioni di fede della comunità. Occorre così anche per la Chiesa, in questo momento di transizione epocale, uscire dalla propria “comfort zone”, per non abbandonarsi a delle consuetudini senza una profonda consapevolezza. Per queste ragioni la proposta formativa diocesana e il cammino sinodale tende a riscoprire e a suscitare un dinamismo di risurrezione spirituale. Radicare, situare, strutturare il rapporto della comunità cristiana con tutto il territorio: è una metodologia nella quale noi promuoviamo così non tanto una pastorale di riproduzione o di fotocopia, quanto una pastorale di annuncio, una pastorale di risveglio.


Interpellati, chiamati e convocati così per maturare uno stile, uno stile missionario e metterci così in una pedagogia nuova, la pedagogia di Gesù, la pedagogia dei martiri. La storia della Chiesa turritana possiede un ricco patrimonio di spiritualità e di impegno nell’evangelizzazione, testimonianze di vita sociale e culturale degne di nota.
Nel momento presente siamo chiamati ad abitare una fase segnata da profonde metamorfosi culturali e politiche. La tentazione di rinchiudersi in un sentimento permanente di mancanza oppure in un ricordo nostalgico di glorie passate, non appartiene alla logica del Vangelo.
Il Vangelo pone in cammino, il Vangelo interpella, il Vangelo suscita l’impegno e contrasta così fortemente la cultura dell’indifferenza ad ogni livello. Ci ricorda il Santo Padre che, come il bene, tende a comunicarsi, così anche il male a cui si acconsente, cioè l’ingiustizia tende ad espandere la sua forza nociva e a scardinare silenziosamente le basi di qualsiasi sistema sociale equo, per quanto solido possa apparire. Se ogni azione ha delle conseguenze, un male annidato nelle strutture di una società contiene sempre un potenziale di dissoluzione e di morte.
I Santi martiri ci sostengano e ci diano la forza di incamminarci in modo rinnovato verso risposte di bene che tendano a comunicarsi nel tempo presente».