Sabato 14 dicembre, a Sassari, nella chiesa del Santissimo Crocifisso e Sant’Apollinare, l’arcivescovo Gian Franco ha presieduto la Celebrazione Eucaristica in occasione della festa parrocchiale.
Di seguito, si riporta il testo dell’omelia pronunciatadall’Arcivescovo.
«Siamo invitati a specchiarci nel popolo di Dio in cammino, descritto nella prima lettura tratta dal libro dei Numeri. Il percorso intrapreso da Israele si rivelò faticoso, al punto che l’autore del testo sottolinea come il popolo non riuscisse a sopportare il viaggio, percependone tutta la fatica. Essi avvertivano il peso dell’Esodo e della chiamata di Dio: un cammino impegnativo, una risposta che richiedeva di uscire e di mettersi in marcia verso la Terra Promessa, la terra della libertà.
Il popolo si trovò a vivere una situazione difficile, tanto da chiedersi: “Com’è possibile che Dio ci abbia fatti uscire dall’Egitto per farci morire in questo deserto?”. Questa domanda non scaturiva solo dalla mancanza di pane o acqua, né dal disgusto per il cibo leggero di cui si nutrivano, ma andava molto più in profondità. Era un interrogativo che nasceva dal cuore: si domandavano se Dio, nella sua bontà, li avesse davvero chiamati per amore o se, al contrario, quella chiamata nascondesse un’intenzione oscura o negativa.
Israele in cammino non doveva affrontare soltanto un esodo esteriore, ma anche un Esodo interiore: un passaggio del cuore, un distacco profondo dalla terra di schiavitù. Il cuore faceva fatica a progredire, e l’intelligenza non riusciva a intravedere prospettive future. Questo cammino si rivelava lungo e impegnativo, poiché costringeva il popolo a confrontarsi con i propri limiti, con l’assenza e con ciò che percepiva come insufficiente. L’esodo rappresentava, quindi, un percorso di purificazione profonda.
Da quale Egitto Israele doveva risalire? Dall’Egitto dell’idolatria, dalla terra di schiavitù da cui Dio lo aveva chiamato per offrirgli l’opportunità di incontrarlo. Questo è il cuore della vocazione: un cammino verso l’incontro con Dio. Anche oggi il Signore ci propone un itinerario di incontro, una risalita, un’ascesa verso di Lui.
Proprio per questo, nel contesto della Visita pastorale, è utile questa sera porci alcune domande: “Qual è il tepore della mia fede? Qual è il termometro della mia fede? È una fede fondata sulla fiducia oppure nella mia fede alberga il dubbio della sfiducia?”.
Il tempo che stiamo vivendo e la chiamata che il Signore ci propone, come li affrontiamo? Con quali domande ci presentiamo davanti a Lui?
Siamo invitati a scendere in profondità, a sostare alla sua presenza nell’esodo del tempo presente. Ci sono molte fatiche: personali, storiche, sociali ed ecclesiali, che pesano su ciascuno di noi. Ma come portiamo il peso della storia che viviamo? Come affrontiamo il carico che ci viene affidato in virtù della chiamata ricevuta?
Dio non rigetta la domanda del popolo, ma la accoglie. Egli ascolta la protesta, la fatica e il dolore che emergono dal cuore della gente. E, ascoltandoli, crea una situazione che consenta al popolo di riconoscere il proprio errore di giudizio. Dopo l’esperienza dei serpenti brucianti che mordevano la gente, il popolo si rivolge a Mosè, il mediatore, e confessa: “Abbiamo peccato, perché abbiamo parlato contro il Signore e contro di te”.
Ma cosa significa aver peccato? Il popolo riconosce di aver visto nella proposta di Dio una minaccia, un pericolo per la propria vita. Non aveva saputo cogliere la bellezza, la bontà e il valore del cammino che Dio stava proponendo. Così, attraverso l’Esodo, il popolo compie un discernimento profondo, che lo porta a purificare la propria fede e a rafforzare il legame d’amore con Dio.
Anche noi siamo chiamati a vivere questo esodo ogni giorno, purificando continuamente il nostro cammino di fede. Non dobbiamo contrapporre le speranze terrene a quelle eterne, poiché entrambe fanno parte di un unico itinerario, di un unico percorso verso Dio. Come ho ricordato nel Messaggio alla Città e al Territorio, ispirandomi a una riflessione di San Paolo VI, le speranze terrene e quelle eterne si intrecciano e convergono nella stessa direzione.
Dio non è il Dio della morte, ma della vita. Ce lo dimostra il simbolo del serpente di bronzo, innalzato come segno del suo amore. Chiunque, dopo essere stato morso, guardava quel segno rimaneva in vita. Questo simbolo ci richiama alla logica del Vangelo: guardare in alto, guardare a Dio. Allo stesso modo, come Mosè innalzò il serpente nel deserto, anche il Figlio dell’uomo è stato innalzato sulla croce, affinché chiunque crede in Lui abbia la vita eterna.
Il mistero dello sguardo a Cristo Crocifisso ci insegna che vederesignifica credere e che credere conduce alla salvezza. Non si tratta di un vedere materiale o fisico, ma di un andare oltre, di vedere con gli occhi della fede. Questo sguardo ci libera dal veleno della morte, che si manifesta nella tentazione di rimanere fermi, bloccati nel deserto.
Nel prossimo Giubileo saremo invitati a volgere lo sguardo in modo particolare al Cristo Crocifisso, affinché Egli ravvivi in noi il giubilo, la gioia e la vita. Come Chiesa, siamo chiamati a rimetterci in cammino. Non sono tempi in cui Dio ci chiama a morire, ma tempi in cui ci chiama a vivere pienamente.
La Chiesa di oggi non è meno Chiesa di quella di ieri. Dio non abbandona la sua comunità né la inganna, ma la accompagna lungo il cammino. La strada della fede non è mai stata priva di difficoltà, prove o interrogativi. Il discepolato è sempre stato impegnativo, ma è proprio nella fatica che si rivela la gioia della sequela.
Guardiamo, allora, al Cristo Crocifisso. Dal suo costato, trafitto per amore, sgorgano il sangue e l’acqua che danno vita. Rivolgiamo il nostro sguardo a Lui, sorgente di una nuova primavera di grazia, per trovare in Lui la vita e la salvezza».