Ordinazione presbiterale dei Diaconi Don Emanuele Piroddu e Don Simone Manca
Mercoledì 28 agosto l’arcivescovo Gian Franco ha presieduto la Santa Messa nella Cattedrale di San Nicola per l’ordinazione presbiterale dei Diaconi Don Emanuele Piroddu e Don Simone Manca, appartenenti rispettivamente alle parrocchie di Santa Monica e San Pantaleo a Sorso.
Di seguito riportiamo l’omelia pronunciata dall’arcivescovo Gian Franco.
«Come abbiamo potuto evincere da questo primo momento della liturgia dell’ordinazione, don Simone e don Emanuele sono cresciuti in un grembo particolare della Chiesa: la parrocchia.Colgo così l’occasione per salutare la bella comunità di Sorso di cui don Simone e don Emanuele sono figli.
Oggi qui, nella Chiesa Madre, l’ordinazione manifesta che la cellula, il luogo storico e concreto dove una vocazione matura fa parte principalmente di quel grande mistero che è la Chiesa particolare nella quale sussiste la Chiesa universale. Si tratta di due orientamenti e due dimensioni del ministero che si svolgono in una Chiesa particolare e concreta ma con una apertura all’universalità.
Oggi la memoria feconda e luminosa di Sant’Agostino, grande maestro di fede, di dottrina e di vita ecclesiale, ci aiuta a comprendere sempre più il mistero della grazia dell’ordinazione presbiterale. Agostino visse in un tempo nel quale tramontava un’epoca e ne sorgeva un’altra, ma della quale non si vedevano ancora i segni luminosi. Egli visse in un tempo nel quale sia i cristiani sia coloro che non avevano aderito al cristianesimo ponevano in evidenza soprattutto i segni oscuri, le rovine di un mondo che tramontava, ma faticava nella gestazione di un nuovo tempo. E questa è anche per altri versi e con altre dinamiche il contesto storico nel quale voi, cari Emanuele e Simone, siete e siamo chiamati a servire Cristo e la Chiesa nel ministero ordinato.
Tutto questo a volte potrebbe condurre ad uno sguardo segnato dall’assenza di fiducia e di speranza, mentre Agostino visse questo tempo accompagnando la sana inquietudine della ricerca con un ascolto profondo della propria interiorità, un ascolto profondo dell’animo umano, un ascolto profondo del suo tempo. È quello che in altri termini oggi potremmo dire, con il linguaggio di Papa Francesco, “l’esercizio del discernimento”, per far progredire la seminagione del Vangelo. Occorre anche un discernimento culturale: la fede separata dalla cultura è destinata a non portare frutto, perché la fede, ci ricorda papa Francesco, suppone la cultura. San Paolo VI nell’Evangelii Nuntiandi ci ricordava che il dramma del nostro tempo consiste proprio nella frattura, nella rottura tra fede e cultura.
Tradotto in termini concreti, per noi significa che le realtà pastorali, ove siamo chiamati ad agire, non corrispondono più a un dinamismo e ad una logica di un’era di cristianità. Il sentire dell’uomo, della persona di tutti i giorni nei suoi ritmi, nelle sue domande, nei suoi bisogni, è segnato da un mutamento, da una trasformazione che certamente comporta una rottura, una rottura con ritmi del passato. Questo non significa rinnegare il passato o la tradizione, ma significa saper seminare il Vangelo nell’oggi di Dio, nel tempo presente. E questo è uno slancio di amore, uno slancio di donazione. Probabilmente anche per noi, che abbiamo ricevuto la grazia del ministero ordinato, questo implica una fatica. Perché, se da una parte sembra venir meno quella che è la nostra identità, comunemente nota dentro alcuni cliché, essa è un’occasione per vivere l’itineranza del discernimento, l’itineranzadell’ascolto, quella capacità di approfondire per l’uomo contemporaneo e per il pastore nel tempo odierno, come diceva San Paolo VI, erede del pensiero di Jean Guitton. Credo che sia significativo quanto fece Agostino quando, nel 391, il vescovo Valerio lo chiamò vicino a sé come presbitero. La prima cosa che chiese al Vescovo non fu quella di assegnargli una comunità, di assegnargli dei compiti: gli chiese di dargli del tempo per studiare la Parola di Dio.
Questo è un paradigma pastorale e un paradigma spirituale, poiché la Parola di Dio è stata l’anima del ministero pastorale di Agostino, la cui vita è stata accompagnata da tutto questo. È bello che oggi voi, Simone ed Emanuele, abbiate sogni di missione, è bello che anche la Diocesi possa avere nei vostri confronti sogni di missione, ma la missione non fondata nel dialogo con Cristo, nella relazione con Cristo, rischia di diventare una missione autoreferenziale, una missione che non è centrata in Dio, non è centrata nella sua Parola e quindi non orientata alla edificazione della Chiesa. Lo studio della Parola di Dio fu la prima scelta di Agostino.
Ve ne fu poi una seconda: la ragione per la quale Valerio chiamò Agostino a sé come presbitero, affidandogli il magistero della predicazione, il ministero dell’annuncio della preparazione dei catecumeni. Valerio era un vescovo di origine greca e quindi conosceva principalmente la tradizione orientale. Forse faticava a conoscere bene la tradizione culturale del Nord Africa, segnata da una profonda latinizzazione oltre che dalla presenza della comunità berbera locale. Questo vescovo avverte dunque l’esigenza di avere presso di sé quella figura che oggi socialmente si chiama il mediatore culturale, il traduttore. Anche questo credo che sia un dato importante in ordine a quanto dicevamo prima: la capacità di entrare in una visione che sappia leggere la cultura dell’interlocutore. E per questo, ecco che Agostino, grande conoscitore del mondo latino, perché egli stesso ne fu discepolo, ne fu maestro, si mise a disposizione per questo servizio e per questo ministero.
Quando noi oggi parliamo di processi interculturali dobbiamo tenere presente che questi sono insiti nella missione della Chiesa. L’evangelizzazione, per sua natura, è in una dinamica di interculturalità; questo allarga gli orizzonti della missione e il grande maestro di Agostino fu l’Apostolo Paolo. E dell’Apostolo Paolo possiamo porre in evidenza due dimensioni che il grande Agostino riprese. La prima è data dai viaggi: l’itineranza. Paolo affrontò tante fatiche per la causa del Vangelo, viaggiando di città in città. Questo ci riporta ad una situazione dell’evangelizzazione sia delle origini ma poi anche di quando un’epoca stava tramontando – e spesso quando ci sono i passaggi culturali ci sono dei periodi nei quali è più facile vivere il ministero in modo più stanziale, in modo più residenziale – altre volte in cui invece è necessario un dinamismo, un movimento, una disponibilità per stare nella realtà del territorio, dei luoghi dove abitano le persone. L’altro aspetto dell’Apostolo Paolo, tanto caro ad Agostino, fu il confronto che l’Apostolo delle Genti dovette subire nella sua predicazione: il fanatismo religioso. Paolo sperimentò non solo la fatica dei mezzi, degli strumenti, la fatica dei viaggi nelle configurazioni sociali e geografiche, ma anche il confronto con la psicologia dell’interlocutore, il suo stato d’animo, la sua cultura, il suo mondo interiore e sociale, e in modo particolare con il giudaismo.
La più antica lettera a noi pervenuta dell’Apostolo e della sua missione fu esito di una predicazione condotta nella tribolazione a Tessalonica. Lì decise di abbandonare la città e di andare via perché non era tanto importante per l’Apostolo rimanere in quella città quanto annunciare il Vangelo. Anche questo talvolta è un primato; è un’ascesi che nel ministero siamo chiamati ad esercitare. Non è importante permanere in un luogo, forzare i luoghi, ma avere quella libertà profonda di andare dove lo spirito del Signore conduce. Era necessario al tempo dell’Apostolo, fu necessario al tempo di Agostino.
Sotto questo profilo Agostino ebbe a che fare in modo particolare con un’armata brigante dei Donatisti, i Circumcelliones, i quali attentarono anche fisicamente alla sua vita. I viaggi a pastorali di Agostino non furono così felici, non furono così confortevoli. La sua stessa vita fu messa a dura prova. Svolse il ministero episcopale per trentatré anni e gran parte dei trentatré anni di quel ministero furono segnati da tribolazioni, da sofferenze e da fatiche per la causa del Vangelo.
Ma nel ministero di questo apostolo del tardo IV secolo che cosa vi era? Il suo radicamento in Cristo.
Nel Vangelo odierno (Mt 23,8-12) abbiamo ascoltato che occorre confessare con umiltà che Gesù è il Signore e Agostino faticò nella sua vita ad accettare il Cristo umile. Il libro delle Confessioni presenta questa fatica che egli condivide. Ma Agostino è arrivato aconfessare il Cristo umile e quindi a formare, a riconoscere che nel Cristo umile della croce vi era il volto del Deus caritas est (1Gv 4,16) di cui abbiamo sentito parlare nella Prima lettura. Commentando il testo di Ezechiele sui pastori, Agostino dice e ricorda a sé stesso, al presbiterio: sia impegno di amore pascere il gregge del Signore. Ecco l’altro orientamento della missione: la comunità. Si è presbiteri non per un ruolo personale, privato, di gruppo, neanche di una cultura, ma per tutti. Vi è un’universalità del ministero ordinato che oggi quanto mai si rende necessario. Tutto questo portò ad affinare in Agostino l’esigenza di dedicare un congruo tempo per la formazione del popolo di Dio con l’annuncio della Parola, con la predicazione, con l’insegnamento. È sempre dannoso, come ci è stato ricordato dal Concilio Vaticano II e costantemente nella storia della Chiesa, scindere l’azione sacramentale dall’azione magisteriale, l’insegnamento dai sacramenti. Lo stesso insegnamento, soprattutto nella omelia, è un sacramentum, è un mistero, è un prolungamento della Parola di Dio e questo richiede dedizione.
Come occupava il tempo Agostino e come chiedeva ai presbiteri di occuparlo?
Non a coltivare interessi mondani alla ricerca di luoghi di prestigio, perché in quegli anni l’Africa del Nord era un luogo di potere, un luogo di denaro, un luogo importante sotto il profilo di occasioni per occupare ruoli anche sostitutivi di autorità civili. Ebbene, egli chiese anzitutto la dedizione all’ascolto della Parola di Dio, allo studio della Parola di Dio e all’annuncio della Parola di Dio. E nella sua Regola, destinata a un gruppo di presbiteri che abitavano con lui, pose un punto importante: “a questa mensa tutti possono partecipare fuorché gli ipocriti”. Il tema dell’ipocrisia è un tema molto profondo nel pensiero di Agostino per due ragioni. Primo, in ordine alla dottrina, perché egli si oppose a coloro che millantavano una Chiesa di perfetti, una Chiesa di persone prescelte, senza macchia e senza ruga. L’altro aspetto riguardava la sua conoscenza dell’animo umano e quindi la formazione.
Ci ricorda Pascal, autore a noi più vicino rispetto ad Agostino, che “l’uomo ha due vite: una è la vita vera, l’altra quella immaginaria che vive nell’opinione sua o della gente” (Pensieri 147). Non può esservi male più grave per chi appartiene e ha scelto di seguire il Signore nel ministero della vita ordinata, dell’adeguarsi a un paradigma di questo genere. Agostino scrisse un testo molto importante, il De mendacio, e lavorò proprio perché l’autenticità della creatura umana nella sua bellezza e nel suo splendore potesse divenire sempre più visibile. Alla luce della Seconda Lettera a Timoteo, egli ricordava che “la parvenza della pietà” (2Tm 3,5) deve essere sostituita dal porre la propria forza nella grazia interiore e nella grazia dello Spirito Santo. La Chiesa è bella non perché imbiancata di aspetti esteriori che coprono le pareti di fango ma perché Colui che l’ha sposata si è fatto povero, si è fatto umile, si è fatto peccato per rendere illuminata, splendidae candida la sua Chiesa. Egli fu così un grande maestro della grazia, ricordando ad ogni persona umana che vi è la possibilità di cambiare e di camminare alla luce della grazia di Dio: “Canta e cammina, non deviare, non tornare indietro, non fermarti. Ama e fa’ ciò che vuoi”».