Chiesa delle Monache Cappuccine: Santa Messa presieduta dall’arcivescovo Gian Franco in occasione della solennità di Santa Chiara
Nel pomeriggio di domenica 11 agosto, in occasione della solennità di Santa Chiara, l’arcivescovo Gian Franco ha presieduto la Santa Messa nella chiesa delle Monache Cappuccine di Sassari.
Di seguito viene riportata l’omelia tenuta dell’Arcivescovo.
«La vicenda di Elia, che abbiamo ascoltato nella Prima lettura, ci ricorda un tratto della sua vita, il momento nel quale egli si inoltrò nel deserto per una giornata di cammino e andò a sedersi sotto una ginestra (1Re 19,5). Elia è un uomo provato, sente la fatica del cammino, non ha più forze, non ha più energie e dice al Signore “Ora basta, Signore! Prendi la mia vita, perché io non sono migliore dei miei padri” (1Re 19,4). La storia della salvezza più volte ci ricorda che il popolo di Israele in cammino avverte la fatica, la difficoltà di camminare verso la terra promessa, di camminare nell’alleanza con il Signore.
La dimensione della fragilità fa parte della storia della salvezza perché sovrabbondi la grazia di Dio, perché la grazia del Signore mostri che Dio stesso accompagna il suo popolo e dona la forza al suo popolo. Tant’è vero che in questa situazione di prostrazione il Signore manda ad Elia un angelo che lo sveglia e gli dice: “Àlzati, mangia!” (1Re 19,5); il profeta vede vicino alla sua testa una focaccia, cotta su pietre roventi, e un orcio d’acqua. Mangia e beve, quindi di nuovo si corica (cf. 1Re 19,6).
Lungo il cammino Elia è sprofondato in un grande sonno: ci troviamo di fronte a un uomo stanco, un uomo sprofondato in un grande sonno, ma ancora una volta si coricò e ancora il Signore lo raggiunse e lo invitò a mangiare dicendogli: “Àlzati, mangia, perché è troppo lungo per te il cammino” (1Re 19,7). Egli si alzò nuovamente e mangiò ancora. È un uomo stanco, un uomo affaticato, provato: tanto è grande la prova che desidera la morte. Egli vede la liberazione solo nella morte, solo in un’altra dimensione dell’esistenza. Ma il Signore lo nutre una prima volta e tanta era la debolezza di quest’uomo che non bastava e il Signore ancora una volta lo nutre (cf. 1Re 19,7-8).
Questo è lo stile di Dio: la gradazione, la ripetizione non è soltanto un fatto numerico, ma è l’espressione che Dio dona al suo nutrimento, per contenere tutte quelle forze necessarie per affrontare il cammino. In questa narrazione noi sperimentiamo e scopriamo che non è possibile camminare senza il nutrimento di Dio.
Ecco anche il senso della vita claustrale, della vita contemplativa, della donazione totale. Non vi è ascesi sia per chi la vive nel monastero, sia per chi la vive nelle strade della vita o in una diocesi o in un’altra comunità religiosa o in una famiglia o nel mondo del lavoro, che non necessiti della grazia di Dio, del sostegno di Dio. E il cammino dell’uomo ha una meta: l’Oreb.
E che cos’è l’Oreb?
È il luogo del dialogo, il luogo dell’incontro con il Signore, il luogo dove egli attende Elia. È lì che il Signore attende tutti. Allora, da una parte riceviamo un messaggio di fiducia, di speranza, di prossimità di Dio, dall’altra scopriamo che siamo chiamati, ciascuno nella propria vocazione, ad essere un po’ quell’angelo mandato ai tanti Elia della storia, stanchi e affaticati nel cammino. Il Signore manda Elia, manda ad Elia un angelo, un suo messaggero. Ecco, carissime monache, credo che la vostra vita nell’ascolto, anche dei tormenti dell’umanità e nell’offerta della vostra preghiera, sia quella presenza angelica, misteriosa. L’angelo è una figura misteriosa che noi non riusciamo a definire bene, a inquadrare bene, ma è il messaggero di Dio.
Ecco, messaggeri di Dio, tra Dio e l’uomo. Ecco il dono della vita contemplativa. Non è stare solo dalla parte di Dio, fuggendo il mondo, oppure per chi opera nel mondo stare solo dalla parte del mondo, lontani da Dio. Ciascuno per la sua parte è chiamato ad essere in cammino verso Dio. Tutti siamo chiamati ad affrontare un esodo. Tutti siamo chiamati al cammino dei quaranta giorni e delle quaranta notti, ma sostenuti da questo messaggero e anche divenendo messaggeri gli uni degli altri.
In questo tempo particolare di conversione pastorale per la Chiesa vi sono tante fatiche, vi sono tante stanchezze, tanti momenti anche di incomprensione, dove la tentazione è quella di dire basta: fammi morire, non voglio partecipare, non voglio fare il cammino. Ma il Signore non esaudisce quella preghiera.
Il Signore esaudisce un’altra preghiera; la esaudisce mostrando la sua paternità nell’accogliere la debolezza di chi è in cammino. Il Signore non ci toglie la fatica del cammino, non ci libera dalle fatiche, dalle sofferenze, ma ci fa vivere in profondità tutta la nostra storia, immersi profondamente nella storia, ma con la sua presenza. E questo credo che sia un compito oggi molto importante. La Chiesa vive una stagione particolare: è chiamata a vivere un esodo. Quale esodo? L’esodo dall’essere ripiegata su se stessa per ritornare al Monte Oreb. Il popolo di Dio cammina e vive i frutti della terra promessa dopo la bellezza dell’incontro nel Monte Oreb.
Dopo il dialogo e l’incontro con il Signore, il Vangelo di questa Domenica ci dice chi è il pane della vita. Gesù dice ai giudei che mormoravano: “Io sono il pane vivo, disceso dal cielo” (Gv 6,51). Egli è il Signore della vita, non della morte. È colui che nutre la nostra esistenza, la nostra storia.
Davanti a Gesù vi è lo scetticismo: “Costui non è forse Gesù, il figlio di Giuseppe? Di lui non conosciamo il padre e la madre? Come dunque può dire: ‘Sono disceso dal cielo’?” (Gv 6,42). È l’incomprensione del mistero dell’incarnazione, la fatica che fecero i contemporanei di Gesù, la fatica delle prime comunità cristiane ad accettare che Dio si facesse uomo. È la fatica del nostro tempo a pensare che il Verbo di Dio si è fatto carne in Gesù di Nazaret.
Una vita spesa per contemplare questo mistero, per annunciare questo mistero, è linfa per la Chiesa. Questo è compito sia di chi vive la vita monastica in un modo peculiare, particolare, ma è anche compito di ogni comunità. La comunità parrocchiale non rinascerà semplicemente da strategie organizzative oppure dal tentativo di conservare in modo quasi psicotico tradizioni, costumi, stili ed orari di un certo tempo, che oggi non esiste più, ma dal rinnovato annuncio di Gesù e dalla sosta davanti a Gesù.
E dove avviene questo? In particolare nell’Eucaristia. Veramente l’Eucaristia è la sorgente e la rinascita della vita della Chiesa. È una sottolineatura che ho posto in rilievo anche nel messaggio consegnato in vista della festa dell’Assunta alla comunità gremiale e alla comunità diocesana. Senza Eucaristia non c’è Chiesa, non rinasce la Chiesa e non si genera la Chiesa, la Chiesa dell’uomo concreto, dell’uomo storico, dell’uomo che cammina nel tempo attraverso le gioie e le tribolazioni del mondo.
E allora ecco che Gesù invita anche noi ad accostarci a Lui, a rivolgerci a Lui, ad ascoltare Lui, a lasciarci istruire da Lui.
“Io sono il pane della vita” (Gv 6,48).
Questo talvolta significa fare un taglio, un taglio interiore o un taglio anche culturale. Santa Chiara, a un certo punto, di fronte ai blocchi che poneva la famiglia, dice: “no, io ho un’altra via, sento che il Signore mi chiama per un’altra via”. Eppure, amava la famiglia, amava i suoi cari e i suoi cari amavano lei, ma cercò l’amore supremo. E cercò di seguire la via indicata da colui che con amore guida i nostri passi e accompagna i passi di ciascuno di noi.
Ecco, chiediamo a Santa Chiara di aiutarci a riscoprire la nostra vocazione nel nostro tempo, domandandoci quali tagli dobbiamo fare. Forse vi sono dei progetti del mondo buoni, positivi, dei programmi, dei modi di vivere, delle consuetudini, ma il Signore vuole aprire un nuovo orizzonte. Da quel taglio è generata la comunità delle clarisse, delle contemplative. Tagliare, a volte, vuol dire rinascere. Ecco, il Signore ci dia la grazia di essere sostenuti dal Pane eucaristico, da Cristo, in questo percorso, perché ci indichi le vie da seguire verso il nostro Oreb».